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RECENSIONE: TRA UN DIO E UN AVATAR

RICEVIAMO e pubblichiamo una bella presentazione critica del nostro spettacolo "Tra un dio e un avatar".
Ringraziamo di cuore l'autrice, Sdonge.



PRESENTAZIONE SINTETICA
La pièce mette in scena la crisi del senso nell’età postmoderna, ossia nel tempo in cui dominano tecnica e tecnologia: non solo in riferimento all’identità individuale, ma anche all’essenza del mondo e delle cose, fondamento e luogo di possibilità, incarnata appunto dal “personaggio” di Dio. E’ in crisi il soggetto che rinuncia ad essere, accetta la clonazione che Dio gli impone finché, non più addolorato per la perdita di sé, fattosi ebete e leggero, entra nella virtualità, dimenticando ogni desiderio ed ogni tensione identitaria. Parallelamente e soprattutto è in crisi Dio, anche lui sopravvissuto a se stesso, ridotto a mera maschera di onnipotenza: non il Dio morto di nietzschiana memoria, ma un Dio che ha attraversato, apparentemente indenne, la propria morte, decretata dall’avvento della tecnica. Un Dio che infatti ignora questo evento della modernità e finge la continuazione della propria forza. Osa ridurre se stesso, l’assoluto, all’ “immagine” di sé da propagandare agli esseri umani, una mistificazione che di fatto gli serve per mascherare il vuoto sopravvenuto. E nel frattempo, agitandosi vistosamente sul piano della scena, si illude della propria antica grandezza: lavato di ogni memoria.
Il testo insomma attraversa questa condizione sconcertante, propria dell’ età contemporanea: dopo la morte del soggetto, dopo la morte di Dio, la tecnica/tecnologia, che della forza dell’uno e dell’altro si è impossessata, polverizza il dolore del lutto e restituisce un’illusione, ridanciana, di senso, un’illusione che accomuna il soggetto e l’oggetto, l’uno e il tutto, divenendo, vuoi per convenienza edonistica, vuoi per superficialità disperante, vuoi per qualunque altra oscura ragione, un credo trasversale.
Il Dio postmoderno sta sul palco e continua a recitare la parte che gli è stata propria fino all’evo moderno, cioè continua a imporsi come un modello necessario, sensato, “immagine e somiglianza” su cui modulare l’umanità. Ma nel frattempo la sua forza se l’è risucchiata la tecnica, qui incarnata dalla telecamera/proiettore puntata sul pubblico e che, a un certo punto, il pubblico fa “vedere” (fa “essere”?), portando così in scena la visibilità del mondo: deve essere accaduto che l’occhio/proiettore meccanico, fondamento o simbolo di ogni altra forma di esposizione/sovraesposizione massmediatica, si è impossessato delle straordinarie facoltà un tempo proprie della divinità, come l’onnipotenza creatrice e l’onnipresenza. E a ben vedere solo la tecnologia riesce a portare a livello di percezione esperenziale l’antico dogma fideistico della debordante perfezione divina. Occhio che perennemente guarda creando l’infinita, ubiqua visibilità del tutto: sguardo che costantemente si svela nell’immagine che produce. E non è certamente un caso che questo “occhio vivente” sia posizionato fuori dalla scena (una considerazione che suggerisce fra l’altro anche una riflessione metateatrale: nuove possibilità di rompere schemi tradizionali dell’impianto scenico). La telecamera/proiettore sta “davanti” alle quinte, puntata sul pubblico che viene proiettato sui fondali, con un ribaltamento delle regole e degli spazi tradizionali del teatro: il che la dice lunga sulla potenza del mezzo che irrompe. Il tutto mentre Dio recita sul palco la sua presunta forza di ideatore del mondo, ignaro ( in mala fede?), di rivelarsi invece una sorta di fantoccio, un semplice ingranaggio di un meccanismo di potere che non gli appartiene più.
E la debolezza di Dio, a confronto con la forza della tecnica, risulta un tema interessante proposto dalla pièce, nel corso della quale avviene una sorta di passaggio delle consegne molto significativo: la creazione non è più prerogativa di Dio che solo può simularla, ma appartiene alla tecnica/tecnologia, la quale però la porta a compimento a patto di svuotarla di ogni definizione di senso, come in effetti accade per la poltiglia dei volti proiettata sul fondale. Questo appunto è un prezzo su cui conviene riflettere.

ANALISI
Dunque un Dio carnascialesco e piroettante quello che si agita sul palco, seguendo traiettorie scomposte di movimenti enfatici, spesso debordanti oltre il perimetro scenico che sullo sfondo raccoglie lo spazio in un catino absidale. Un Dio paradossale che dissacra se stesso e lo spazio che attraversa, nella concitazione delle gambe e delle braccia, nei bruschi mutamenti di traiettoria per cui spesso finisce col mostrare le terga allo spettatore, cedendo persino a un’inflessione di volgarità.
Un Dio massmediatico, concentrato a “vendere” la propria immagine di grandezza, la sua pura forma, con una forza di imbonimento pari solo al vuoto che invece lo devasta. E proprio nella sfuggenza di questo vuoto, nell’evidente difficoltà di coprirlo-contenerlo sta riposta l’origine farsesca dei suoi contorcimenti che pure nel’immediato creano parvenze di forza, simulano effetti di controllo. A un primo impatto sembra infatti che Dio convinca nell’imporsi allo spettatore: egli mette in scena una maschera di forza di sé ilare e compatta. Ma dello scarto fra evidenza e senso si accorge lo spettatore che riesce a pensare oltre l’immediato del primo piano, attento sopattutto al pregevole controcanto che i movimenti scomposti del corpo vanno implicitamente tessendo sulle parole tronfie e smargiasse del personaggio divino.
Infatti, ciò che brilla in mostra, nella scia luminosa della cravatta e delle scarpe di strass, è che Dio appare potente, intriso della forza parolaia che scioglie ogni obiezione (certo anche a se stesso) nella luce artificiale e frammentata di quei brillantini, e lo conferma in un’illusoria-autoillusoria affabulazione di grandezza… una suggestione persistente nella sua presuntusamente seduttoria, sgraziata anomalia. E tuttavia un profilo bislacco, che misteriosamente acquista spessore ad ogni incontro-scontro con il personaggio sua controparte, fino ad addensarsi in una presenza schiacciante e impositiva, una sorta di colosso dominatore, di fatto novello fantasma di Aladino, uscito dalla lampada di questo nostro tempo, forzato da un genio misterioso e malevolo che lo fa potente ma senza alcun fondo di prezioso valore, rendendolo mero esecutore opaco di un volere che non è suo. Ed è corretto ipotizzare che questo genio coincida proprio con l’aspirazione residua che muove ancora le ruote del nostro presente: si intende la tensione incantatoria, l’attitudine alla meraviglia nel vuoto di pensiero, questa gigantesca menzogna che si nutre di sé senza comprendersi nelle sue ragioni profonde, capace solo di crescere a dismisura per la gioia degli stolti che confondono la mera esecuzione con la libera creazione. L’incanto mistificatorio è infatti l’ispirazione nodale tanto nell’attività del Dio ciarlatano e beato quanto nella passività cedevole del soggetto amebico e angosciato che gli sta di fronte senza nome, inchiodato al riconoscimento del proprio destino di dannazione, costretto a rinunciare al sogno ottocentesco di un’identità libera, votato invece alla determinazione di sé secondo copione divino.
In avvio di rappresentazione un soggetto se ne sta in scena, con abito infantile, tutto proteso verso la propria nascita: tende poeticamente il suo corpo, pronto a tenere il peso del senso, perfino faticosamente sollevando (a riprova) un tavolo, raccolto lo sforzo del corpo sotto il suo piano. Ma nulla da fare: il fantasma che ha in mente non si concretizza. Finché gli compare dinanzi Dio, a sciogliere ogni sua contrazione, ogni sua pregnante tensione in una smorfia insulsa, costringendolo a rinunciare alla nascita, a spogliarsi degli abiti puerili/ingenui, a denudarsi in un profilo biancastro e indefinito, incerto perfino nella sessualità, pertanto necessariamente votato all’imitazione. Finché puntualmente la forma gli cala addosso, attraverso l’abito femminile che col suo rosso luccicante fa pendant con gli strass della cravatta di Dio. Segue veloce l’addestramento, ossia la cancellazione di ogni velleità originaria: la donna, neonata, si specchia nella forma che Dio, modello primo e autoreferenziale, decide per lei, le infila addosso. La nuova figura, così stampata, vive/inscena lo spettacolo fantasmagorico di una esistenza di esibizione. Qui ogni atto è virtuale: anche la cara uva di Bacco ha compiuto il suo tempo, perduto ogni suo gusto inebriante. Insomma all’ipotesi al femminile cade miseramente ogni convincimento: troppo vistoso scintillio del rosso elegante! Dio sgangheratamente si rivela per quello che è: maestro di vuoto. La donna brillante allora non ci sta più nel suo seducente tubino: cerca un’altra forma, ormai completamente dimentica della mozione d’autentico che aveva originato la sua storia, sì, certamente, eppure, una volta svelata l’inconsistenza di quel sublime maestro-modello, comunque desiderosa di un gesto eversivo, che la fa duttile ai voleri di un altro padrone, ben più duro tiranno del primo: la tecnica, la cancellazione del corpo, la dissolvenza di un’immagine piatta, di un riflesso baluginante fra mille altri, un suicidio scelto nella consapevolezza della sua necessità, della forza insindacabile del “vero” padrone.
Dunque, il testo sembra cogliere temi centrali del nostro quotidiano d’oggi, coniugandoli nella loro complessità esistenziale e sociale. E’ facile, perfino scontato, sviluppare gli ammiccamenti all’attualità politica italiana e ai suoi ciechi e al contempo compiutamente luccicanti protagonisti, novelli dei nati dalle proprie ceneri e di questa presuntuosa inconsistenza nutriti. Ma risulta assai più interessante seguire, in ambito sociale, una seconda traccia di senso e di riflessione, suggerita proprio dall’irruzione in scena della tecnologia della virtualità. Sul palcoscenico l’ “immagine” del mondo viene resa fisicamente presente, integrandosi sia con l’azione sia con il testo, in una sintonia che non assume solo valore estetico, ma amplifica e rafforza il passaggio dei contenuti. L’apparizione del pubblico/mondo, rarefatto nei tratti sfumati sulla tela garzata dei fondali, insolitamente spostato dalla platea al palco circolare (appunto: potenza della tecnica!), svela la fantasmagoria in cui consiste la creazione/costruzione tecnologica, quella che attualmente abitiamo: sulla tela a un certo punto accade di non vedere più stampata una summa di individui ma un insieme di ex individui, straniati in massa informe. A chi segue lo spettacolo è consentito esperire un tratto determinante del nostro quotidiano vissuto, ossia il superamento della soggettività viva, della differenza, il suo farsi poltiglia nella illusione visiva. Il pubblico è costretto a guardare la propria destrutturazione: gli individui, la loro storia si cancellano nella fluttuazione suggestiva ma di fatto nichilista dei panneggi. Chi assiste alla comparsa del proprio volto per prima cosa si cerca, provando perfino disagio nell’assoggettarsi a quella apparenza, a prestarsi a questa sua forzata riduzione a “grande fratello”: una reazione che dimostra quanto ciascuno abbia creduto nella possibilità di preservare una identità. Poco dopo però quegli stessi spettatori, che pure hanno avanzato riserva o perfino provato disagio nell’ apparire in scena e si sono, anche ansiosamente, cercati nel proprio profilo, si trovano a perdere concentrazione di sé, fino a dimenticarsi, a non indagare più nella traccia incerta delle linee ondulate, cedendo infine alla propria indifferenziazione: il pubblico va rinunciando all’immagine che interiormente nutriva di sé, diventa immagine aliena da sé, finisce coll’aderire, facendosene una ragione che non sa, a una scelta non condivisa ma, soprattutto, intuita come necessaria. Lo dimostra lo stato indolore che appunto accompagna questa grave (è o non è determinante l’esserci al mondo?) perdita del sé. Se fosse possibile monitorare la sensibilità di chi assiste, molto probabilmente emergerebbe a tratti solo qualche lento riflesso di dolenza, come se tutti si fosse precipitati in uno stato ipnotico e le sensazioni fossero ormai filtrate attraverso i flussi di un anestetico. Perché è possibile che ciò accada? A conclusione sembra proprio che questo semplice interrogativo sussuma il problema più importante aperto dalla performance, la quale certo non offre soluzioni, ma ha il pregio di descrivere una possibile modalità del come ciò accada.
Il pubblico e con lui i protagonisti in scena entrano in una sorta di gioco degli specchi, la “tensione incantatoria” accennata in apertura, un moltiplicarsi di proiezioni e riflessi a seguire: da una parte c’è il personaggio illuso/disilluso della sua nascita secondo un’immagine interiore di sé che abortisce miseramente, immedesimato fintamente nel modello maggioritario di una televisiva femme fatale impostagli da un istrionico Dio, infine suicida virtuale nella decisione di aderire all’immagine esterna del mondo come mera parvenza, e in questo perfino compiaciuto, grazie a un applauso conclusivo che allontana definitivamente lo spauracchio del dolore di quel misero fallimento del sé; dall’altra parte c’è Dio in persona, anche lui perso nella falsa proiezione di una forza che non gli appartiene; infine il pubblico, “preso per le orecchie”, a considerare la propria condizione in fieri (questo è un teatro che non consente di dimenticare la vita e rompe ogni tentativo di isolare perentesi), e cioè di immagine fra le immagini, espressione sì della molteplicità del mondo, ma come parvenza. Piani diversi sussunti in contemporanea, grazie al virtuosismo dello spazio teatrale, grazie alla virtualità della tecnologia, piani sfuggenti, suggestioni a spirale, finte: solo ad amplissimi tratti, sempre più stanco e sfumato come un’eco suggestiva, il ricordo della ricerca di verità. Certo è che la simultaneità, dimensione dominante del nostro tempo, accelera e amplifica ogni percezione, ogni sensazione: confonde le idee.
Sdonge

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